lunedì 4 giugno 2012

Mente bionica, un chip nella testa e la tecnologia creò il supercervello



NEW YORK - E adesso chi ce lo toglierà più dalla testa? Una volta che l'impianto sarà lì bello e piazzato, più o meno gentilmente infilato sotto pelle, giusto un pelino sotto, tra la calotta e il cervello vero e proprio: chi ce lo potrà più togliere dalla testa? 


No, inutile ritirare fuori i soliti incubi da fantascienza. Il professor Frank Guenther, per esempio, capo del dipartimento Cognitive and Neural Systems dell'Università di Boston, ha poco da spartire col Keanu Reeves di Johnny Mnemonic. Eppure il professore ha fatto nella realtà quello che il film tratto dal romanzo di William Gibson immaginava: ha aperto il cervello di un tizio e ci ha infilato dentro una simpatica macchinetta. L'apparecchio serve a trasformare in linguaggio i pensieri del volontario: impossibilitato a parlare dopo un incidente terribile. L'operazione funziona così. Questa specie di elettrodo viene piazzato sotto la calotta, al confine della zona della corteccia cerebrale predisposta al linguaggio. L'apparecchio rivela gli impulsi del cervello e li trasferisce via radio (e già: in modulazione di frequenza, come viaggiano le canzoni e le news) a un microcomputer esterno che trasforma l'ordine in un programma di sintesi vocale, tipo quelli usati negli ultimi iPhone. Risultato: il paziente che non poteva parlare adesso parla. Tempo rilevato tra la trasmissione degli impulsi e l'ascolto della voce elettronica: 50 millisecondi. Cioè lo stesso tempo medio che tutti noi impieghiamo a trasferire i nostri pensieri alla bocca: anche se non sempre diamo l'impressione che il cervello sia collegato.

Chiamatela mente bionica. Chiamatelo l'upgrade del cervello. Chiamatelo braintech. Chiamatelo come volete: ma soprattutto preparatevi a fare i conti con questo connubio tra uomo e macchina. L'incubo di ieri è già il sogno di oggi. Intendiamoci: per adesso i primi a usufruirne sono giustamente i malati. Come quella signora sessantenne, paralizzata da 15 anni, che l'altro giorno è riuscita a muovere col pensiero gli oggetti: riuscendo a versarsi una tazza di caffè. Telecinesi? Macché: nulla a che fare con le potenze extrasensoriali inutilmente evocate dal povero Massimo Troisi in quell'esilarante scena di Ricomincio da tre. Qui il miracolo si chiama BrainGate: che è il nome appunto di un neuroimpianto sviluppato tra gli altri da Leigh Hochberg, neuroingegnere della Brown University, Rhode Island. Ma che cosa succederà quando invece di aiutare i malati e gli incidentati a superare gap fino a ieri insormontabili, queste tecniche finiranno invece per portare un diretto vantaggio su tutti gli altri?

È proprio quello che Daniel Wilson, l'autore di Robopocalypse, immagina in un articolo sul Wall Street Journal, alla vigilia dell'uscita del suo attesissimo Amped. Il termine sta appunto a indicare gli "amplificati": quelli cioè con le capacità cerebrali amplificate dalle tecniche che fino a ieri sembravano solo fantascienza. Volete un esempio diretto? Dalla testa ai piedi: pensate al caso di Oscar Pistorius. Le superprotesi permettono al coraggiosissimo campione sudafricano di correre, puntando perfino alle Olimpiadi, malgrado l'amputazione a tutt'e due le gambe: ma dal superamento del gap al vantaggio sugli altri - le protesi non cederebbero mai, per esempio, per fatica - il passo è, manco a dirlo, velocissimo.

I neuroimpianti, del resto, potranno presto essere impiegati anche per aiutare a sviluppare tra i cosiddetti normodotati qualità e tecniche oggi conquistabili solo a fatica. L'elettrodo che ci sveglia quando l'attenzione cala. L'elettrodo che sviluppa udito e vista. O quello che favorisce le sinapsi e quindi ci aiuta a leggere più velocemente il mondo. Basterà un impianto a renderci dunque più intelligenti? E saremo costretti a denunciare o no di essere portatori di questi "bypass del cervello"? Dovremo fare domanda a qualche autorità (più o meno) etica per essere sottoposti a impianto? Ecco: tutte domande che nessuno, da questo momento in poi, riuscirà più a toglierci dalla testa. Almeno fino alla prossima operazione.


Fonte: repubblica.it

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